Autore: Stefano Tortora
Torno a casa nel bagliore fioco delle luci artificiali, le
cuffie che mi martellano i timpani con sonate di Mozart e minuetti di
Bach, rumori che si confondono con la melodia dei clacson e l’armonia
dei motori. Cerco di dimenticare l’incessante suono dei telefoni della
centralina e le voci monotone, sgarbate e ipocrite degli esseri al di là
della cornetta. Intanto che cammino mi accorgo di aver perso dei pezzi
di me stesso, come colpito da una lebbra nel profondo. È come se la
monotonia della mia vita mi stia a poco a poco rubando ogni brandello di
personalità, e allora vedo me stesso un po’ ancora attaccato al
telefono seduto su una sedia ormai sudicia di sudore, un po’ all’angolo
della strada disteso come un mendicante che elemosina soldi per affogare
i dolori nella droga e nell’alcool. E finalmente vedo quella piccola
parte di me che cammina sul ciglio della strada: sono uno dei tanti
uomini che chiedono alla vita non gloria né avventure, ma solo la
tranquillità di un ambiente domestico. Ma quando torno a casa e sento
l’odore delle patate appena uscite dal forno, il bacio umido sulla bocca
e il corpo caldo che mi avvolge come per proteggermi da un male
sconosciuto, allora mi sento un eroe, a resistere ogni giorno, a
fermarmi per strada per caricarmi le spalle di ogni frammento di me
stesso, a mantenere il senno lucido e la morale di un cristiano.
Sul
limitare di tale Paradiso i sensi fremono, le membra si rilassano e
aspetto che la fatica di vivere mi venga lavata via di dosso alla vista
del flebile bagliore di una casa incassata fra due colossali grattacieli
che dall’alto delle pareti grigie ad un tempo deridono ed ignorano la
sua esistenza. E io, grato di siffatta intimità, apro le porte dell’Eden
per rivolgere un sorriso alla mia Eva.
Il sorriso si perde nel
vuoto di un tavolo sgombro, di una cucina spenta, nel vuoto del mio
cuore e nell’aridità delle mie labbra deluse. Una volta lessi il libro
di uno di quei filosofi moderni, mezzi psicologi, mezzi sociologi, che
descriveva i passaggi della caduta della mente a partire dall’infelicità
per la propria condizione e dall’insensatezza dell’esistenza. Il primo
passo, afferma tale “illustre studioso”, è l’illusione che possa esserci
un luogo in cui sentirsi completi e soddisfatti; ma il passo
immediatamente successivo è la disillusione.
Passo tre: l’autoconvincimento della regolarità.
No, deve essere ancora a lavoro, il mio sole e la mia stella. Devo solo
aspettare che torni e poi mi abbraccerà, mi bacerà e mi consolerà, mi
darà piacere. Questa volta, Mondo, ho vinto io, è l’unico gioiello che
non mi puoi portare via, è mio e io sono suo. Sono il suo Eroe.
La
mente si rialza, ma si irrigidisce, crede di essere più forte ma non si
accorge di essere un castello di granito su pilastri di vetro. Il
turbine della realtà questa volta non lo piegherà, ma…
Salgo
le scale verso la camera da letto per preparare il tempio della mia
Dea, affinché sia generosa. Ecco che al silenzio si sostituisce il più
dolce dei suoni: quello di due corpi in amore, dell’unione, della
completezza, del piacere. Il respiro caldo e ritmato, due cuori che
battono al suono della stessa melodia di desiderio… ma io non sono uno
di quei due cuori. Corro come spinto da una folata di vento in cima alle
scale, ma lì mi blocco paralizzato dal terrore. Ma terrore di cosa? Di
lui? O forse di lei? Della mia mente? Apro la porta e un turbine mi
travolge.
Passo quattro: la caduta. C'è un momento in
cui tutta la speranza svanisce, tutto l'orgoglio è perduto, tutte le
aspettative, tutta la fede, tutti i desideri. Avete mai sentito il suono
di una mente che va in pezzi? Non è lo schiocco secco di quando un osso
si incrina o un cranio si frattura. E non è dolce e umido come il
cedere di un cuore. È un suono che ti fa domandare quanto dolore possa
sopportare una persona, un suono che infrange i ricordi e lascia che il
passato fluisca nel presente; un suono così acuto che solo i mastini
dell’Inferno possono udirlo. Riesci a sentirlo?
Qualcuno
riesce a sentirmi? È buio, umido, sento il freddo del ferro tra le mani,
il sapore metallico sulle labbra. Il bianco delle lenzuola viene
inghiottito da un colore strano, scuro, che non avevo mai visto,
l’ “illustre studioso” lo chiamerebbe rosso-morte. Un urlo disperato avvolge la stanza, assorda le mie orecchie, ma si spegne in pochi istanti, come soffocato dal dolore.
E
finalmente lo sento, il calore delle sue braccia che mi avvolgono
mentre percepisco le membra accasciarsi sul nostro altare sacrificale.
Con l’udito ovattato sento la sacerdotessa dell’animo mio che implora il
demonio, che si è insinuato nel nostro Paradiso terrestre per
cacciarmi, di aiutarmi, mi dice che non devo, non posso morire, le sue
labbra si avvicinano alle mie e mi dona quello che doveva essere il
bacio più dolce e più doloroso della mia vita, un bacio che ormai io non
posso più assaporare mentre chiudo gli occhi.
Una
mente spezzata è portata dalla follia e dal dolore ad abbattere prima
la causa del proprio male e poi se stessa. E così abbiamo un incremento
esponenziale dei casi di uxoricidio seguiti da suicidio.
Mai potrei farti del male. Tu sei il mio gioiello, io il tuo martire.
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